Salaali Muhamet. Walaali Muhamet. Diikum, daakum, sàkkajaa, màkkajaa
In Senegal, una leggenda preislamica rielaborata dentro l’islam rivive in uno straordinario format di teatro di strada. Il Simb Gaïndé è un’espressione del “patrimonio immateriale” che resiste, a dispetto dell’assedio dell’urbanizzazione e del forzoso edulcoramento delle performance. Lo spettacolare show dei “falsi leoni” raccontato da una involontaria coprotagonista a Dakar
Salaali Muhamet. Walaali Muhamet. Diikum, daakum, sàkkajaa, màkkajaa.
Il mio amico Abdoulaye prova a istruirmi mentre esco da casa sua. «Se Simbkat ti prende, tu digli queste parole. Lui cadrà in trance e ti lascerà andare». Salaali Muhamet. Walaali Muhamet. Diikum, daakum, sàkkajaa, màkkajaa. In questa cantilena, sostanzialmente intraducibile, è chiaro però il riferimento al profeta Mohamed. Abdoulaye la ripete più volte, senza incepparsi. Per me non c’è verso di memorizzarla.
«Pagherò il biglietto, Abdoulaye, così non rischierò di essere acciuffata».
Uomo o leone?
Sono diretta a Medina, uno dei quartieri più antichi della capitale, un tempo malfamato ma oggi segnalato da tutte le guide turistiche per i suoi murales e la vivacità artistica. Alle 19, o forse alle 20.30, avrà inizio la performance dei falsi leoni, in wolof simb gaïndé, un’espressione di teatro di strada che appartiene alla tradizione senegalese e che, al di là dell’aspetto ludico, è molto interessante sul piano culturale. Rivela infatti le radici animiste di un Paese al 95 per cento musulmano.
Il Simb Gaïndé si richiama a una leggenda preislamica ma rielaborata dentro l’islam e che trasforma un rito di possessione animista in intrattenimento.
Protagonista è un uomo, chiamato Père Ngom, che si avventura nella foresta per procacciarsi il cibo e incontra un leone. Incredibilmente, l’uomo riesce ad avere la meglio sulla belva e ritorna al villaggio, ma drammaticamente trasformato. Il suo corpo è ricoperto di lunghi peli; dalla sua bocca escono ruggiti invece di parole; l’unico cibo che riesce a mangiare è la carne cruda. Lo spirito del leone aveva insomma trovato posto nel suo essere.
I guaritori tradizionali (fajaat), capaci di ammansire le fiere con la voce, si industriarono per curare Pére Ngom e finalmente riuscirono a trovare il jat (le parole curative) in grado di farlo scivolare nel sonno e liberarlo dallo spirito che si era impossessato di lui.
Quelle parole erano, quasi inutile dirlo: «Salaali Muhamet. Walaali Muhamet. Diikum, daakum, sàkkajaa, màkkajaa», e sono arrivate fino a noi.
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